Mio zio è morto a 16 anni, da partigiano.
Ne parlo solo ora, ci penso così tanto solo ora, per colpa del podcast de Il Post “Una mattina”, scritto e raccontato da Luca Misculin. Un racconto della Resistenza in tre stagioni. Ascoltare la prima mi ha rimestato qualcosa dentro.
Ho trovato queste poche parole sul sito dell’ANPI Sezione di Chiomonte Alta Valle Susa.
Ho cercato di ricavare qualche altra informazione, ma non ci sono riuscita: è troppo il tempo che è passato, si sono perse le tracce.
A Bardonecchia, dove Giuseppe abitava insieme ai miei nonni, dove ho abitato io per la prima parte della mia vita, c’è una via, vicino al cimitero, intitolata a lui. Probabilmente lì c’era – e forse ancora c’è – l’albero a cui lo hanno impiccato.
In casa mia non si parlava di questo fatto: io ho solo due ricordi ed entrambi sono sfocatissimi (e forse li ha creati il mio cervello, chissà). Nel primo, mia mamma estrae da un vecchio bauletto verde, chiuso con una chiave piccola piccola, la tessera di riconoscimento da partigiano appartenuta a mio zio. Non l’ho più rivista: sarà esistita davvero? Nel secondo, rubo un pezzetto di racconto che forse non era adatto alle mie orecchie di bambina: pare che il corpo di mio zio, tirato giù dall’albero, sia stato attaccato a un cingolato e portato per le vie del paese come monito, soprattutto per le madri dei partigiani.
Che sia stato condannato a morire per un sabotaggio ai fili del telegrafo l’ho scoperto sul sito dell’ANPI.
Io vengo da lì, e se hai una storia come quella alle spalle probabilmente nelle tue cellule si è installato il chip del senso di responsabilità. È qualcosa sotto tono, sotto pelle, sotto tutto. Non ti impedisce di vivere, lavorare, gioire, amare, ma ti tiene d’occhio, come una spia sempre accesa. Ed è quel senso di responsabilità che mi spinge a interrogarmi.
Io non posso ricostruire la storia di Giuseppe e immagino non siano più in vita le persone che avrebbero potuto fornirmi qualche informazione, allora cerco qualche risposta nelle pagine di uno dei libri citati dal podcast di Misculin: Storia passionale della guerra partigiana, di Chiara Colombini.
Leggo il libro cercando di capire cosa poteva spingere un ragazzo così giovane a fare un salto così grande e aderire alla Resistenza, e mi immergo nella precisione storica di Colombini incrociata con la sua estrema sensibilità. Lo sforzo dell’autrice è leggere tra le righe dalle lettere e dalle testimonianze raccolte dagli studi sulla Resistenza per provare a cogliere ciò che all’epoca ha spinto tante e tanti a compiere quel passo così unico e decisivo, a livello personale e collettivo.
Cosa è stata la Resistenza, al di là o, forse, insieme, alla lotta? Quale è stato il groviglio di emozioni e sentimenti che ha segnato quel periodo breve e densissimo tra il settembre 1943 e l’aprile 1945?
Parto dalle parole (riportate nel libro) di Giorgio Mainardi, un ragazzo vicentino di 20 anni, di buona famiglia, studente di medicina a Padova.
«Parto, perché non posso non partire, non posso non obbedire all’esigenza della mia coscienza. Se qualcosa sento di potere – e lo voglio fortemente – è su di me, soltanto su di me. Poiché il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo, se alcun si fa nuova creatura, muore se ognuno di noi muore a sé stesso».
Ammetto che queste parole mi hanno commossa moltissimo, ma sono così forti, così pregne di consapevolezza e autoconsapevolezza che ho subito pensato non fossero per tutti.
Quel modo di pensarti e ripensarti, di indagare sull’impatto che le tue azioni possono avere sul vivere collettivo, di argomentare per iscritto è frutto di un’abitudine al ragionamento che puoi maturare se vivi in un contesto nel quale ciò già è un’abitudine, se lo studio ha affinato la tua capacità di maneggiare pensieri, o se la pratica politica ti ha dato gli strumenti necessari per prendere consapevolezza di un piano simbolico che prima ti era del tutto estraneo.
Cosa voglio dire?
Che mio zio era povero, probabilmente pochissimo istruito, e appartenente a una famiglia di origine veneta in perenne lotta per la sopravvivenza. Non si leggeva, non si studiava, non si affinava la dialettica in casa dei miei nonni, ecco.
Ma è Colombini stessa che mi risponde:
Certamente non tutti si pongono come impegno e come traguardo la trasformazione di sé stessi, ma per tutti il cambiamento è un dato di fatto perché mutano le condizioni di vita.
Chi decide di mettersi contro l’ordine costituito rappresentato dalla legge dell’occupante tedesco e della Rsi (Repubblica sociale italiana) sceglie volontariamente di diventare un fuorilegge.
Ecco, ma allora perché, zio, hai scelto di diventare fuorilegge? Come ci sei arrivato?
Colombini scrive che quando la Resistenza ha inizio gli antifascisti “già formati” sono una minoranza, mentre dal punto di vista numerico il “grosso” delle formazioni partigiane e di chi si attiva a vario titolo nella lotta è costituito dalla generazione dei più giovani, che sono cresciuti interamente sotto il regime, per i quali il fascismo e le sue parole d’ordine sono stati l’unico orizzonte a disposizione; una generazione che per questa ragione, in larghissima maggioranza, non ha e non può avere una cultura politica altra.
Esatto, mio zio quando è morto aveva 16 anni quindi lui non ha conosciuto che il fascismo, non aveva una fede politica “altra” a cui aggrapparsi per ricevere sostegno e orientamento. A che cosa si è aggrappato, allora?
Di nuovo la risposta mi arriva netta:
Tutti […] sanno esattamente quello che non vogliono: la guerra con la sua devastazione e i suoi lutti, l’occupazione con il suo sistema di dominio basato sul terrore e sulla rapina, il fascismo con il suo corredo di sopraffazione e ingiustizia. È su questo terreno comune, una domanda di futuro che scaturisce direttamente dai tratti cupi del presente, che avviene l’incontro tra chi è politicizzato e chi non lo è. Per questi ultimi la motivazione a prendere le armi e l’immagine del futuro da conquistare si riassumono nell’idea di un mondo migliore, più giusto, e spesso l’aspirazione si arresta a questo livello di definizione, o poco oltre.
Probabilmente è stata questa domanda di futuro senza sopraffazione e ingiustizia che ti ha spinto, zio: un desiderio forte di alzare la testa come mai nessuno della tua famiglia aveva provato a fare. Un desiderio che forse non ti eri nemmeno accorto di covare ma che il confronto con altri giovani e meno giovani e più politicizzati ha fatto emergere. Eccola la dimensione personale che si salda a quella collettiva:
Ciascuno si è trovato a decidere per sé e a farsi carico in prima persona delle conseguenze delle proprie scelte, ma per poterlo fare ha dovuto necessariamente collegarsi con altri, per reagire alla condizione comune di un presente insopportabile e provare a immaginare un futuro diverso per tutti.
È proprio l’esperienza partigiana a dare un contenuto a tali forme. In altre parole, convinzioni ideologiche e militanza politica per i più non sono l’origine dell’impegno nella Resistenza, quanto piuttosto il risultato dell’esperienza vissuta tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.
Ti ha spinto ad agire, dunque, non una fede politica - che non potevi aver maturato in 16 anni pieni solo di fascismo - ma una spinta a conquistarselo, quel futuro diverso.
Che cosa sei disposto a fare? Fino a dove sei disposto a spingerti? Che cosa è legittimo fare per rovesciare un ordine iniquo tale da rendere impossibile la vita?
Queste sono le domande che subito dopo ti sarai fatto anche tu, e se hai deciso di intraprendere l’azione di sabotaggio ai fili del telegrafo (sarà stata la prima? Di certo l’ultima) immagino anche che tipo di risposta ti sia dato.
Di nuovo Colombini ad aggiungere pennellate alla tela:
L’alternativa tra il dare battaglia o meno è inscindibile da una valutazione dei costi e dei benefici che ogni azione partigiana comporta: il che, detto in modo meno asettico, significa fare i conti con la minaccia costante di rappresaglie, uccisioni e terrore. Se prendi l’iniziativa, ti esponi al rischio della reazione e delle sue tragiche conseguenze; se vuoi evitarle, ti esponi al rischio della paralisi e della sottomissione che ne deriva.
Cerco di provare nella pancia quel groviglio di paura e dubbio che ti accompagna. Ti immagino mentre soffri pensando al dolore che temi di infliggere, in ogni caso, a tua mamma, mia nonna, ma nello stesso tempo ti sento bruciare perché, ormai, hai deciso.
Per come ti penso e ti vedo, zio, non mi sembri un eroe, ma un ragazzo stanco di sopravvivere, con il desiderio di incominciare a vivere. In te la speranza di riscatto personale è legata stretta al sovvertimento di una condizione materiale impossibile da sostenere un giorno in più.
Non sai forse dare un nome alle speranze, ai desideri, alle insofferenze, ma hai capito che per farle diventare azione devi sentirti parte di un progetto più ampio. Hai bisogno di unirti alla Resistenza e diventare un partigiano. Hai bisogno di esserci, di vedere ed essere visto.
Ti voglio bene, zio, e questo è l’unico modo che ho, che so, per dirtelo.
Grazie per questa riflessione sulle motivazioni profonde che possono aver spinto tanti giovani ad unirsi al movimento partigiano
Che bella testimonianza, grazie per averla condivisa! Anche se non ci si è conosciuti in questa vita, la storia di chi ci ha preceduto si riflette sulla nostra, e non la si dimentica più 💖